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Antigone ed Elettra di Sofocle: viaggio tra memoria e oblio della violenza IV


Questioni del passato

Elettra 

Spedizione ateniese in Sicilia,
illustrazione del XIX secolo
Di poco posteriore all'Elettra di Euripide (1), anche questa di Sofocle (come quella) non può essere letta se non come autentica eco di un'epoca di profonda crisi, anche questa (come quella) concepita dalla mente di un poeta disilluso che nell'assoluta perversione dei vincoli familiari e del legame tra madre e figlia, di tutti il più stabile, riassumeva il male del suo tempo. Erano gli anni successivi alla disfatta della spedizione ateniese in Sicilia, anni di forte instabilità politica, che costringevano la città, ormai da tempo impegnata nel conflitto con Sparta, a confrontarsi con le sue più grandi paure (2).

Era un clima generalizzato di diffidenza e sfiducia quello che, nell'analisi tucididea, aveva favorito l'instaurarsi della guerra civile all'interno della polis nel 412 a.C.; lo storico descriveva una realtà in cui tutti "[…] avevano l'animo abbattuto […] per il fatto di non conoscersi tra loro; […] avrebbero trovato uno sconosciuto nell'uomo cui avessero rivolto parola o un infido in uno che conoscevano; con sospetto si accostavano gli uni agli altri" (3), in cui "la parentela di sangue era ormai divenuta più estranea del patto tra faziosi" (4).
È un medesimo clima di diffidenza e sfiducia a dominare anche in Sofocle il rapporto tra Elettra e Clitemnestra, un rapporto nel quale la "vicinanza" fisica e biologica (pelas v. 551; plesias v. 640; anchiston v. 1105) non è più sinonimo di vicinanza emotiva e l'unico distorto residuo di reciprocità tra le due donne si manifesta in un perenne contraccambio di accuse e recriminazioni (vv. 221, 223, 256, 523-524, 552-553, 619-620, 622-623); nel quale non è più il latte ciò che la creatura succhia dal seno della propria generatrice per garantirsi la sopravvivenza, bensì il sangue (vv. 784-786) e con il sangue l'energia vitale di una genitrice che obbliga la sua stessa prole ad una vita di stenti e soprusi (vv. 189-192, 264-265) (5).

Elettra sulla tomba di Agamennone,
William Blake Richmond
Ma è soprattutto nell'esecuzione delle pratiche funebri che questo disordine delle relazioni riflette la gravità di una situazione storica completamente stravolta.
Nessuna cerimonia regolare è officiata in onore del defunto Agamennone (6); ogni mese la sposa assassina celebra la ricorrenza di quella morte con sacrifici agli dei salvatori e rinnova l'offesa in banchetti oltraggiosi (vv. 277-281, 284), mentre alla giovane figlia lo strazio della perdita non concede riposo né altre "feste" che non siano penose "veglie notturne" di afflizione (pannuchidon v. 92) (7).
Nessun lamento tradizionale è intonato dalle donne della casa, se non appunto da Elettra, ed è un lamento furtivo e isolato, non più depositario di una sofferenza condivisa (vv. 100-101), un lamento che da tradizionale espressione di cordoglio per un morto spesso sconfina in un'innaturale lamentazione per una "viva", un lamento impossibile da contenere entro quei limiti che la polis aveva da tempo imposto alle manifestazioni private del lutto.
Così, nell'assiduo e ridondante ricorso al lessico del compianto e al suo specifico intercalare (8), nella ferma intenzione di non desistere mai dalle lacrime (vv. 103-104, 107-109, 132-133, 223-224, 231), nell'eterno indulgere ad un tormento descritto quasi con accondiscendenza come incommensurabile ed implacabile (vv. 164-5, 230-232, 259, 600), Elettra evoca lo spettro di un passato che l'istituirsi dell'ordine civico sembrava aver tacitato e che ora il vacillare di quello stesso ordine rischiava di far riaffiorare, e incarna l'aspetto più ancestrale e minaccioso di una memoria del dolore che, rifiutando di porsi al servizio dell'ideologia cittadina e dell'ufficialità del culto, aveva sempre avuto il potere di minare i principi della vita associata alimentando il più anti-politico dei sentimenti. Sullo sfondo della stasis ("guerra civile") ateniese di fine secolo, nulla consente di riconoscere un qualche anelito di giustizia nelle dichiarazioni di Elettra: quello che ella invoca con tutte le sue forze è un esplicito atto di vendetta (9), nel quale il risentimento che senza posa ella fomenta impugnando alla stregua di un'arma il ricordo ossessivo (10) di un padre incapace a sua volta di dimenticare (ouamnastei v. 482), si confonde con un desiderio di rappresaglia che la puntuale rassegna dei suoi personali patimenti esaspera ben oltre l'imperativo di riequilibrare con un mero gesto di compensazione l'uccisione paterna e di fronte al quale quel delitto a tratti pare persino ridursi ad un "pretesto" (proschema v. 525).

Nondimeno, in un teatro che non è mai privo di progettualità e che mai si esaurisce nella denuncia, quell'infaticabile tensione di Elettra a tenere vivo un rancore dal quale il demone della sua memoria traumatica non le concede alcuna tregua - tensione che indubbiamente per il pubblico ateniese di V secolo a.C. doveva risuonare eccessiva e sconveniente - diventa lo strumento privilegiato attraverso il quale si profilano le condizioni di una svolta efficace a far luce almeno in parte su una vicenda dai toni tanto cupi.
L'insistenza con la quale Elettra, incalzata dalla sua completa incapacità di oblio, ha mantenuto vigile nel tempo l'attenzione sulla violenza sopportata come su quella da dover (e voler) restituire, è anche ciò che a lungo andare l'ha obbligata a prendere coscienza dell'identica natura di entrambe, restituendole di sé l'unica immagine in grado di guarirla, perché intimamente vera.

Clitemnestra,
John Maler Collier
Inutile, infatti, tentare di rintracciare segni d'innocenza in questa Elettra che nel canto d'ingresso il coro subito apostrofa come "figlia di scelleratissima madre" (vv. 121-122). Invano ella si sforza di soffocare tale origine nel suo odio sprezzante (vv. 97, 261-262, 273) e di sconfessarla dichiarandosi "orfana" (v. 187); invano si proclama ad essa estranea, rivelandosene al contrario irrimediabilmente corrotta e testimoniando con la sua persona l'assurdo di un mondo capovolto in cui a null'altro vale più il sangue se non a riprodurre il male. Della regina Elettra ripropone i comportamenti degenerati (vv. 307-309, 606-609, 621) e nessuna differenza separa gli sterili appelli dell'una ad una maternità ormai svuotata di ogni pregnanza e invalidata sia ad offrire che a pretendere fedeltà (vv. 532-533, 596, 613, 770) dai tentativi dell'altra di mascherare il proprio abbrutimento dietro gli effimeri vagheggiamenti di una più rassicurante discendenza paterna.
Eppure, solo dalla piena adesione a questa sua (per quanto problematica) somiglianza con colei che le è "padrona, non meno che madre" (dunque, pur sempre madre) (vv. 597-598), Elettra trae una reale possibilità di riscatto, solo arrendendosi al suo esistere a tutti gli effetti come un "doppio" di Clitemnestra ella sviluppa la convinzione che avere in sé le medesime risorse di quella donna capace di "agire" (su gar poieis vv. 624-625) possa aiutarla a trasformare la sua ingombrante eredità in energia rigeneratrice. "Non era diversa la mia natura, ma nel pensiero ero meno risoluta" (v. 1023): queste le parole di Elettra che, tenendosi stabilmente in equilibrio tra repulsione e attrazione, astio e invidia, accoglie la relazione controversa e ambivalente con la madre come quella in assoluto per lei più significativa; che, come Ismene, fino alla fine rimane una figura "di frontiera", protesa verso un "fuori" in cui può davvero proiettarsi a patto di sapersi abbandonare al "dentro" a cui appartiene (vv. 78, 109, 155, 313, 328, 518, 802, 818, 1052); che, come Ismene, capisce di non poter progettare per sé alcun domani senza avere il coraggio di guardare onestamente al proprio ieri.

A regalarle un'opportunità di salvezza ha provveduto, invero, quella condotta furtiva e menzognera che Oreste ha assimilato dalla madre come un inconfondibile lascito (11) e della quale ella ha tardato a riconoscere l'efficacia, rimproverando di colpevole assenza colui che Clitemnestra puntualizza "nato dalla sua propria vita" (tes emes psyches gegos vv. 775-776), ma che troppo a lungo è stato da tutti pensato come progenie esclusiva del padre (vv. 2, 162, 182, 695, 857-858, 1251-1252); allo stesso modo, richiamandosi alla sola derivazione da Agamennone (vv. 341-342, 365-367, 463) ella aveva tacciato di spregevole opportunismo gli atteggiamenti controllati e ossequiosi di Crisotemi che, pur restando in disparte, non le aveva mai rifiutato collaborazione e consenso e che proprio la nascita da quell'unica matrice aveva reso a lei del tutto "sorella" (vv. 156-157, 325-326).
Ed ora, a salvarla davvero è l'attuarsi della violenza più estrema, cui Elettra assiste incitandola: non c'è pietà nell'accanimento con cui ella incoraggia Oreste ad infierire sul corpo della madre (vv. 1415), non c'è esitazione nella crudeltà con cui si augura che cani e uccelli accorrano a smembrare le carni insepolte di Egisto (vv. 1487-1489), come non c'era stata parvenza di scrupolo nella ferocia con la quale la sovrana adultera aveva orrendamente straziato il cadavere dello sposo (v. 445).

Oreste uccide Egisto e Clitemnestra,
Bernardino Mei
Violenze imparentate, dunque, che il testo tragico non manca di evocare in ogni gesto compiuto "di persona": non è violento solo il matricidio che "di propria mano" Elettra rivendica venga realizzato (cheiros v. 37; cheros v. 455, autocheiri v. 1019) e Oreste adempie (cheroin v. 1394; cheir v. 1422), non diversamente dal regicidio consumato dai nemici (cheiri v. 126; cheiroin v. 206; autocheira v. 955); progettano la violenza "le mani" di Elettra e del pedagogo che hanno allontanato Oreste dalla "stretta letale" di Clitemnestra (vv. 296, 601), aspettando l'occasione di poter dispensare anch'esse la morte (vv. 1132, 1348, 1350, 1357); alludono alla violenza già perpetrata "le mani" di Crisotemi che portano doni alla sepoltura del padre per conto della regina (vv. 326, 431), rimandano a quella ancora da attuare "le mani" di Oreste che recano l'urna di bronzo sgombra di ceneri (v. 54) e quelle di Elettra che la reclamano (vv. 1120, 1129), "le mani" di Crisotemi che raccolgono dalla tomba di Agamennone la ciocca dei capelli di Oreste (v. 905) e ancora quelle di Elettra che da vivo (v. 1226) riabbracciano il fratello creduto morto lontano dal conforto delle sue cure (vv. 866, 1138).
Violenze per le quali lo stesso testo tragico non si preoccupa di fornire attenuanti né giustificazioni; violenza sanguinaria e brutale quella immaginata e rovesciata addosso alla madre, per nulla diversa da quella già imposta al padre, ma che, lucidamente assunta in tutta la sua drammatica drasticità, si fa capace di segnare il passaggio ad una realtà profondamente rinnovata.

Non rinuncia alla sua vocazione politica Sofocle, neppure adesso: è sua la speranza che si nasconde nell'immaginarsi di Elettra ancora una volta inclusa in un contesto civico che vive di feste religiose e di adunanze popolari (tisaston v. 975; ev eortais ev te pandemo polei v. 982), suo il sogno che si cela dietro l'invocazione dell'eroina alle donne del coro come a "concittadine" (o politides v. 1227).
Tuttavia, ciò che si prospetta nelle parole della giovane è una forma di convivenza del tutto inedita, un disegno di comunità che consente di reinventare il futuro perché scardina le regole di un passato con cui non si è rifiutato il confronto e di cui si sono districati tutti i nodi; in un ultimo rigurgito di memoria, Elettra si affida al ricordo delle sue infinite pene (vv. 1245-1248), le stesse che Oreste le intima di non dimenticare al momento giusto (vv. 1250-1252), affinché da esse ella tragga la forza necessaria all'azione decisiva senza distogliere lo sguardo dal fatto che, distruggendo la madre, sarà una parte di sé che ella andrà a sopprimere. Forte di questa verità faticosamente conquistata e libera finalmente, ella può farsi promotrice di una trasformazione culturale che inaugura un diverso modo d'intendere e di vivere le relazioni; che basa la reciproca appartenenza sulla condivisione del sentire e dei propositi, operando sul concetto di philia uno slittamento semantico tale da farne un sinonimo dei principi di "affinità" e di "concordia"; che non riconosce nella nascita dagli stessi corpi o dalla stessa terra un fattore sufficiente al costituirsi di una collettività e che, di fronte al fallimento storico del primato di una consanguineità ormai spogliata di ogni valore reale (vv. 1154, 1194, 1410-1413), ricorre alla syngeneia esclusivamente come ad un modello (vv. 1124-1125, 1202) e su di esso fonda una parentela simbolica (vv. 1130, 1146-1147, 1220, 1232-1233, 1361, 1429) a cui è ammesso solo chi ha già dato prova di un'effettiva comunanza d'intenti (vv. 1301, 1346, 1363, 1484).

Quali che fossero le motivazioni, non sembra che l'Atene di quel tempo tanto difficile abbia saputo (o voluto) recepire il messaggio che nella sua lungimiranza Sofocle tentava disperatamente di farle arrivare; sta di fatto che, quando un decennio più tardi i sopravvissuti alla guerra civile si trovarono a decidere del loro futuro, curiosamente si mossero in una direzione contraria a quella suggerita dal poeta; se nello stile il celebre decreto del "me mnesikakein" allora approvato e l'annesso giuramento richiesto a ciascun cittadino ricalcavano le formule ricorrenti dell'eloquio di Elettra (12), nella sostanza essi imponevano di "non serbare memoria del male patito in relazione al passato contro nessuno che non fosse dei Trenta, dei Dieci, degli Undici e degli ex-magistrati del Pireo; neppure contro questi,  poi, se avessero presentato il rendiconto delle loro azioni" (13).

Oreste perseguitato dalle Erinni,
William Adolphe Bouguereau
Non è certo questa la sede per esprimere un qualsivoglia giudizio storico in merito. Quello del 403 a.C. non fu il primo provvedimento simile ad essere approvato dalla città (14), ma fu il primo ad essere investito di un'esemplarità tale per cui le fonti antiche lo consegnarono alla storia come l'archetipo di tutti i successivi atti di amnistia; in questo senso esso, che in pratica si traduceva nella rinuncia a intentare azioni giudiziarie ai danni degli Ateniesi che si fossero macchiati di qualche crimine (15), si riproponeva di impedire all'odio di continuare a propagarsi vietando il perseguimento della vendetta (foss'anche nei termini rigorosamente previsti dalla legge) e tentava di dare una risposta alla precisa esigenza di ricomporre un tessuto sociale lacerato dal conflitto.
D'altra parte, il ricorso a questa che voleva essere un'autentica "strategia della riconciliazione", lasciò intuire fin da subito le sue debolezze. Non solo essa legittimava l'impunità delle singole responsabilità e di conseguenza negava agli individui il dovuto riconoscimento delle loro sofferenze, presupposti entrambi necessari ad una solida e durevole riappacificazione (16); cosa assai più grave, essa proibiva alla popolazione di comprendere la reale portata di quanto l'aveva appena attraversata.
Così, quella violenza che la città rifiutava come a lei estranea, riversandola interamente su un gruppo circoscritto di "capri espiatori" precisamente enumerabili (17) e assolvendo da ogni colpa gli altri cittadini idealmente ricostituiti nella loro indivisa e indivisibile unità; quella violenza che essa credeva di poter esorcizzare, guardandosi indietro e pretendendo di ripristinare le condizioni politiche antecedenti la stasis, che nella versione edulcorata dei fatti, cui si costringeva a rifarsi, erano state temporaneamente interrotte da un isolato attentato di natura oligarchica alle istituzioni democratiche; ebbene, quella stessa violenza tornava a segnare i comportamenti di una polis ormai del tutto alla deriva, che nell'imposizione istituzionale del silenzio sul male pregresso cercava un alleato alla sua incapacità di guardarsi per quella che era davvero, di una democrazia restaurata che si dichiarava "moderata" e intanto non si faceva scrupolo di condannare a morte senza regolare processo uno dei suoi che aveva osato rivangare il passato (18), nell'illusione che bastasse congelare il ricordo di quanto accaduto per annullarne le ripercussioni sul presente e che fosse possibile far tacere il grido di una memoria che avrebbe continuato ad essere minacciosa, fino a quando non si avesse avuto il coraggio di affrontarla.


Note:

(1) Nonostante le incertezze sulla datazione, l'Elettra sofoclea sarebbe da collocare intorno al 410 a.C., mentre quella di Euripide nel 413 a.C.

(2) Cfr. C. Bearzot, Atene nel 411 e nel 404. Tecniche del colpo di stato, in Terror et pavor. Violenza, intimidazione, clandestinità nel mondo antico (Atti del Convegno, Cividale del Friuli 22-24 settembre 2005), Pisa, 2006, pp. 21-64; P. Pinotti, Cadaveri eccellenti. Strategia della diffamazione, cultura dell'imboscata e violenza politica dall'affaire delle erme al processo di Socrate, in G. Raina (a cura di), Dissimulazioni della violenza nella Grecia antica, Pavia, Ibis, 2006, pp. 103-174.

(3) Cfr. Tucidide, La guerra del Peloponneso, VIII, 66.3-5.

(4) Cfr. Tucidide, La guerra del Peloponneso, III, 82.6.

(5) Cfr. J.-P. Vernant, Mito e pensiero presso i Greci, trad. it. Torino, Einaudi, 1970 [ed. or. Mythe et pensée chez les Grecs, Paris, Librairie François Maspero, 1965], pp. 101-102; Sophocles. Electra, edited by John Henry Kells, Cambridge, Cambridge University Press, 1973, pp. 93; M. Casevitz, Le vocabulaire de la colonisation en grec ancien. Etude lexicologique: les familles de ktizo et de oikeo - oikizo, Paris, Librairie C. Klincksieck, 1985, pp. 155-158; A. Serghidou, Electre epoikos: aliénation domestique et réintégration dans l'"Electre" de Sophocle, "Quaderni di Storia", XIX (1993), pp. 85-110.

(6) Cfr. Sophocles. Electra cit., pp. 87-88; C. Segal, Tragedy and civilization. An interpretation of Sophocles, Harvard, Harvard University Press, 1981, pp. 271-278; R. Seaford, The distruction of limits in Sofokles' Elektra, "Classical Quarterly", XXXV (1985), pp. 315-323.

(7) Di grande effetto l'ironia prodotta qui dall'utilizzo del termine pannuchis che indicava proprio una festività celebrata nel corso della notte, al contrario di ciò che fa la regina trasformando in occasione di giubilo una cerimonia luttuosa.

(8) Frequentissimo in bocca ad Elettra è l'utilizzo di tutto il linguaggio del cordoglio (goos vv. 104, 244, 353, 870; threnos vv. 88, 94, 232, 255), della tipica gestualità del dolore (vv. 90, 100), delle immancabili espressioni del lutto (io vv. 77, 149, 841; aiai vv. 136, 152, 829; oimoi vv. 788, 883, 1108, 1143, 1160, 1162; feu vv. 830, 842, 920, 1161).

(9) Che della vendetta, tra l'altro, ripropone tutta la terminologia specifica (vv. 110-115, 209-212, 244-250, 298, 349, 355-356, 399, 792, 811, 953, 1156). Cfr. C. Milani, Il lessico della vendetta e del perdono nel mondo classico, in M. Sordi (a cura di), Amnistia, perdono e vendetta nel mondo antico, Milano, Vita e Pensiero, 1997, pp. 3-18.

(10) Infiniti sono i suoi rimandi al padre e alla sua morte indegna (vv. 101-102, 115-116, 133, 145-146, 205-206, 258, 263, 272, 279, 349, 358, 368, 447, 463, 554, 558, 587-588, 816, 953, 955, 1190-1192, 1352).

(11) Come suggeritogli dalla divinità, Oreste parla di una giustizia da "realizzare furtivamente" per mezzo di "inganni" (doloisi klepsai v. 37), di un'urna di bronzo "nascosta" tra i cespugli che tutti credono contenga le sue ceneri (kekrummenon v. 55), di un annuncio di morte dato "con parole di frode" (kleptontes v. 56), di un passo "furtivo" che lo conduce dentro la reggia (doliopous v. 1392). Allo stesso modo, a proposito di Clitemnestra e di Egisto si parla di talami "usurpati" (upokleptomenous v. 114), di un marito "caduto in un agguato" e colpito "a tradimento" (ek doleras v. 124; prodoton v. 126), di una preghiera "furtiva" (kekrummenen v. 638).

(12) Cfr. N. Loraux, La città divisa. L'oblio nella memoria di Atene, trad. it. Venezia, Neri Pozza, 2006 [ed. or. La cite divisee: l'oubli dans la memoire d'Athenes, Paris, Payot, 1997], soprattutto le pp. 199-230.

(13) Cfr. Aristotele, La costituzione degli Ateniesi, 39.6; Senofonte, Elleniche, II, 4.43.

(14) Cfr. N. Loraux, La città divisa cit., nota a p. 29; A. Natalicchio, Me mnesikakein: l'amnistia, in S. Settis (a cura di), I Greci II 2, Torino, Einaudi, 1997, pp. 1305-1322.

(15) Cfr. N. Loraux, La città divisa cit., p. 236.

(16) Cfr. C. Bearzot, Perdonare il traditore? La tematica amnistiale nel dibattito sul richiamo di Alcibiade, in M. Sordi (a cura di), Amnistia, perdono e vendetta cit., pp. 29-52; C. Bearzot, Lisia e l'amnistia: l'orazione XXV e il suo sfondo politico, in M. Sordi (a cura di), Amnistia, perdono e vendetta cit., pp. 59-77; L. Spina, Il trapianto del trauma: la memoria condivisa del male, "I Quaderni del Ramo d'Oro", II (2009), pp. 192-203.

(17) Cfr. N. Loraux, La città divisa cit.; C. Mossè, L'amnistie de 403: une illusion politique?, in M. Sordi (a cura di), Amnistia, perdono e vendetta nel mondo antico, Milano, Vita e Pensiero, 1997, pp. 53-58; A. Wolpert, Remembering Defeat: Civil War and Civic Memory in Ancient Athens, Johns Hopkins University Press, 2002.

(18) Cfr. Aristotele, La costituzione degli Ateniesi, 40.2.

2 commenti:

  1. Grazie Ilaria, la tua chiave di lettura mi ha aiutato a meglio inquadrare l'opera di Sofocle nel contesto storico del tempo. L'ho tenuta presente in una conferenza che ho tenuto la settimana scorsa a Viareggio sul Mito di Elettra

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    1. Caspita, ne sono davvero onorata!
      Sarei a mia volta curiosa di conoscere i contenuti del tuo lavoro...sarebbe uno scambio davvero interessante...

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