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Antigone ed Elettra di Sofocle: viaggio tra memoria e oblio della violenza III


Questioni del passato 

Antigone

Antigone presso il corpo di Polinice,
Jean Joseph Benjamin Constant
Se (d'accordo con le ipotesi di lettura più accreditate) non si può negare che il conflitto portante di questo dramma collochi i personaggi di Antigone e Creonte agli estremi di un'irriducibile dialettica, è tuttavia nei profondi (e di regola trascurati) risvolti storico-politici, cui la vicenda si apre, che di tale dialettica va ricercata la chiave; introdotto da Antigone fin dai primi versi del prologo (vv. 7-8, 22, 26-30), il motivo della sepoltura di Polinice non rappresenta semplicemente il pretesto che dà il via all'azione tragica, ma sottende lo scontro realmente in atto nell'Atene di V secolo a.C. tra ordine regale e ordine politico, che sul terreno della legislazione funeraria spesso si giocava.

Rivendicando il diritto/dovere di onorare il corpo del fratello, Antigone consolida la propria identità di giovane erede dei Labdacidi e rinnova la propria adesione agli imperativi ineludibili del sangue.
Nelle sue parole, il lessico specifico e frequentissimo della philia (riservato dall'antica lingua greca a designare le molteplici forme di relazione, che obbligavano gli individui ad uno scambio di mutui doveri e alla fedeltà ai differenti gruppi di riferimento, in cui essi si riconoscevano reciprocamente "implicati" (1)) si alterna stabilmente a quello altrettanto specifico e frequente della syngeneia, della "consanguineità" (2), e delimita la ristretta cerchia dei "suoi" a quanti (come lei) difendono la legittimità di una continuità della dinastia e agiscono in ragione di un'urgenza prettamente familistica.
Sulla bocca di Antigone, il ricorso alle famose "leggi non scritte" (vv. 450-457) si risolve in un estremo tentativo di giustificare un atto di disobbedienza e di rivestire di assolutezza e sacralità norme e precetti della tradizione aristocratica, dunque del tutto terreni e ancora operanti in piena età democratica in quella forma orale che riservava alla nobiltà la prerogativa esclusiva della loro interpretazione a tutela del mantenimento di una serie di privilegi esclusivi di classe (3).

Testa di Creonte,
Giuseppe Diotti
Dal canto suo, Creonte procede ad una radicale reinterpretazione del principio di "coappartenenza", disarticolando i nomi della philia da quelli della syngeneia e rivestendoli di una valenza sociale che si apre all'orizzonte della politica; nelle battute pronunciate dal nuovo sovrano di Tebe, un diverso criterio di elezione e di esclusione subordina ciascun altro legame a quello dato dall'essere cittadini, membri di una comunità di uguali che nel primato della norma scritta pongono il loro fondamento (vv. 182-190), e vincola il conferimento stesso delle esequie a quella logica stringente che esige di onorare come "amici" i difensori della patria e di castigare come "nemici" i suoi assalitori.
Creonte proibisce di rendere omaggio al cadavere di Polinice (vv. 198-208, 284-287) e nella sua proibizione risuonano i provvedimenti di ataphia ("non-sepoltura") storicamente adottati dalla città per colpire i rei di tradimento (4) e sacrilegio, autentici strumenti di lotta istituzionale quando diretti a colpire il prestigio dei casati.
Egli fa di Eteocle il campione della "bella morte" (vv. 194-197, 209-210) e il suo gesto consacra le scelte rivoluzionarie di un'Atene democratica che si andava sempre più radicando nella volontà di ridurre drasticamente l'iniziativa privata nell'allestimento delle cerimonie funebri e di convertire le antiche competenze dei clan in solenni celebrazioni pubbliche interamente gestite e strutturate dallo Stato; di contraddire il fasto e la magnificenza di un culto volto all'esaltazione (non più accettabile) dell'individuo e di promuovere una differente impostazione collettiva di funerali, elogi e sepolture; di trasformare la rievocazione dei defunti in un evento di glorificazione della stessa polis alla quale sola era riservata la facoltà di estendere in uguale misura a tutti i cittadini eroicamente caduti quella fama immortale che in passato era stata beneficio elitario per pochi (5).

Non può che esserci condanna, allora, per Antigone il cui destino di morte è ricondotto dalle parole del coro al suo vivere "in obbedienza a leggi proprie" (autonomos v. 821; autognotos v. 875). Come non può che esserci condanna per il rito da lei iterato, un rito inconsueto, eclatante ed esplicito, che si fa notare e interferisce con la vita e le regole della città (vv. 245-247, 249-258, 395-396, 402, 404-405, 423-431); un rito che Antigone "di propria mano" si vanta di avere compiuto (autocheir v. 900) e di volere ancora compiere (cheri v. 43), ma che proprio perché attuato "di persona" è per Creonte atto di trasgressione (autocheira v. 306) e per le guardie motivo di denuncia (chersin v. 429).
Nella nuova dimensione del koinon (dell'essere "di tutti"), dove chi si pone al di fuori delle coordinate della comunità è un elemento di disordine, agire "di propria mano" diventa un crimine ed evoca un tempo in cui gli uomini "di propria mano" commettevano massacri abominevoli: è in questi termini che Creonte accenna al fratricidio appena consumatosi alle porte di Tebe (autocheiri vv. 170-172), è così che il coro parla della morte reciprocamente inflittasi dai due guerrieri fratelli (kath'autoin vv. 143-146). Come in altri drammi, l'universo primitivo del genos è così assimilato al passato di brutalità ferina che nell'immaginario greco aveva preceduto l'istituirsi della civilissima polis, e forse più che in altri drammi la rievocazione di quella brutalità sembra dire la necessità di superare l'antica società tribale e i suoi ordinamenti. Con un'operazione palesemente funzionale alla propaganda ateniese, anche questa tragedia gioca con insistenza sull'ambivalenza di un termine come aima nella sua doppia accezione di "parentela" e "assassinio", e fa del sangue che fonda la famiglia un elemento designato a versare altro sangue o ad essere a sua volta versato (6): per Creonte, è "d'identico sangue" Polinice venuto a scagliarsi sulla propria stirpe (xunaimon vv. 198-202), è "d'identico sangue" Eteocle caduto per mano del fratello (omaimon v. 512).

Eppure, in questo dialogo tra sordi, in cui tutto concorre ad opporli e separarli, Antigone e Creonte, che fin dall'inizio condividono la stessa rigidezza e cecità, finiscono per subire in maniera del tutto sorprendente un identico destino di sconfitta; dove trovare, pertanto, le ragioni dell'inatteso declino che investe anche Creonte, rendendolo pericolosamente simile ad Antigone e vicino a ciò che di lei egli ha sempre disapprovato?...mostrando nell'ultima scena del dramma il suo essere non "sovrano", ma "uomo", distrutto e perdente perché colpito negli affetti familiari più intimi e privati, dimentico di ogni ritegno nel gridare pubblicamente il suo personale dolore?
A dare le risposte, forse, potrebbe essere proprio il personaggio di Ismene, di questa sorella "minore" dal ruolo in apparenza marginale e della quale ancora non si è fatta menzione.

Antigone e Ismene,
Thomas Armstrong
Come per Creonte, anche in Ismene il richiamo puntuale degli orrori generatisi all'interno del genos si accompagna alla precisa volontà di chiudere definitivamente con quel passato.
Ismene incarna la memoria perduta (o, per meglio dire, sistematicamente negata) di Antigone e fin dal suo esordio sulla scena elenca con chiarezza le ragioni che le impongono di prendere le distanze da quei vincoli degenerati e indifendibili ai quali Antigone, persa nel non-ricordo delle sue omissioni, resta invece saldamente ancorata e per il cui riscatto non esita a sacrificarsi.
Alla vaghezza cui Antigone ricorre in ogni suo generico appello alla totalità dei propri philoi, al suo accenno isolato e sbrigativo alla figura di Edipo del quale peraltro tace ogni qualifica di paternità (v. 2), all'attenzione che pone nel passare sotto completo silenzio il fratricidio e nel definire le relazioni di fratellanza e sorellanza come legami di derivazione esclusivamente materna (7), Ismene risponde  riferendosi nel dettaglio ai singoli gradi di parentela e alla specificità delle infamie legate rispettivamente al padre (vv. 49-52), alla madre (vv. 53-54), ai fratelli (vv. 13-14, 55-57); alla reticenza di Antigone che accomuna sotto l'identica e vaga denominazione di "mali" (kaka vv. 2, 6, 10) gli affronti subiti da parte della città e le sciagure originatesi da Edipo (spogliate così di ogni tratto di colpevolezza e imputabilità), Ismene oppone il ben noto alternarsi dei termini autos ("stesso") e cheir ("mano") a rimarcare la piena responsabilità di Edipo nel proprio accecamento (autoforon…autos autourgo cheri vv. 51-52), di Eteocle e Polinice nel loro reciproco assassinio (cheri v. 14; autoktonounte…cheroin vv. 56-57).

Ciononostante, a differenza di Creonte, Ismene insiste nel parlare al passato di temi importanti e nel conservare gli usi antiquari e tradizionali di tutto il vocabolario della philia, che nei suoi interventi continua a sovrapporsi a quello della syngeneia.
Fedele al valore irrinunciabile del sangue a dispetto e al di là delle perversioni di cui i "suoi" si sono macchiati, nel brevissimo scambio di battute con il sovrano la donna cerca di risvegliare in lui la percezione degli eccessi che contraddistinguono anche il suo agire, ricordandogli appunto la sacralità del vincolo che lo lega al figlio e che un'applicazione troppo radicale e intransigente del suo decreto rischia di travolgere (vv. 568, 570, 572) (8); attirando l'attenzione del re sulle nozze mancate di Emone (promesso sposo di Antigone), Ismene lo pone di fronte alla concreta possibilità che il perseguimento ostinato dei propri obiettivi e il conseguente deprezzamento delle relazioni di consanguineità da lui fortemente promosso finiscano per ripercuotersi contro di lui e contro il suo programma di governo, distruggendo l'unica alleanza di sangue nella quale, come sarà da lui stesso esplicitato nel successivo dialogo con il figlio (vv. 634, 639-647, 661-662), egli dica di credere e che rispetti come perno della vita familiare e come pilastro dello Stato.

Sta sulla soglia del palazzo Ismene, sul limitare (pro pulon v. 526), non pienamente fuori dove l'ha convocata Antigone (ektos auleion pulon v. 18), non del tutto dentro dove Creonte si è insediato e detta legge. Ha le sue radici nel genos Ismene, inequivocabilmente identificata da Creonte come una "d'identico sangue" rispetto alla sorella (xunaimos vv. 488-489) e per questo condannata a subirne la medesima sorte; eppure, è capace di proiettarsi nel futuro e di aprirsi al nuovo della polis dalla quale viene poi assolta e risparmiata proprio per voce del sovrano (v. 771).
La sua è la grandezza di chi accetta di guardare con lucidità la propria storia senza la pretesa o l'illusione di potersene mostrare differente, di chi si lascia interrogare anche dagli aspetti più oscuri e detestabili del proprio vissuto ed è disposto a farsene trasformare, di chi ritorna ad abitare il mondo imparando ad elaborare sempre nuovi sensi d'appartenenza.

Antigone condannata a morte da Creonte,
Giuseppe Diotti
Troppo tardi Antigone si arrende alla memoria a lungo inconfessata degli scandali da cui finalmente e tristemente si riconosce nata (vv. 857-866), delle colpe fraterne che le hanno inquinato la vita (vv. 869-871). E se a tratti nel delirio del suo commiato sembra abbandonarsi al rimpianto per le nozze che le sono negate e per una maternità che mai potrà sperimentare (vv. 813-816, 867, 876-877, 891, 917-918), nessuna incertezza trapela dalle ultime parole che ella rivolge a Creonte e che si risolvono in un estremo, quasi brutale, tentativo di riaffermare le sue ragioni: mai si sarebbe immolata per un marito o per un figlio perché altri avrebbe potuto averne, mai si sarebbe sottratta agli obblighi verso il fratello, insostituibile da quando Ade accoglie padre e madre (vv. 905-912).
Incatenata al suo essere "sorella" prima e più ancora che "figlia", ostinata e cieca nel difendere l'unicità di un vincolo che più di altri si radicava nel sangue e dunque meno di altri poteva venire alterato o rimpiazzato, Antigone si esclude dalla modernità di un contesto politico che al contrario si era progressivamente stabilito sul disgregamento e la manipolazione del dato biologico nell'ottica di una riorganizzazione sociale ispirata a criteri più specificamente istituzionali (9). La verità solo sfiorata sul proprio passato e sulle proprie origini non ha la forza di strapparla alle sue ossessioni e così Antigone, condannata alla sterilità dal suo stesso nome (Anti-gone può significare tanto "contro la generazione" quanto "in luogo della generazione"), si consuma in un gesto improduttivo che null'altro sa replicare se non le antiche catastrofi e finisce per prendere il suo posto nella storia di automutilazione e autodistruzione di una famiglia malata, in cui un insano e maniacale ripiegarsi del sangue su se stesso ha sostituito il regolare compiersi della procreazione, generando vergogna e oscenità (10).

Troppo tardi Creonte intuisce la follia della propria condotta.
Ottenebrato dal desiderio di cancellare ogni compromissione con ciò che è stato e dal bisogno di affermare la novità assoluta del potere da lui assunto, egli si è spinto oltre il limite del lecito al punto di misconoscere la propria identità e con essa l'identità dello Stato che si è proposto di rifondare; il rifiuto intransigente dei vincoli che attraverso la sorella Giocasta (madre e sposa di Edipo) lo saldano al genos dei Labdacidi, la durezza dell'editto con cui ha calpestato le relazioni che l'avevano messo in condizione di emanarlo - è lo stesso Creonte a dichiarare di essere salito al comando grazie ai "legami di famiglia con i defunti" (vv. 173-174) - la caparbietà con cui sottovaluta che Antigone è "figlia della propria sorella" (vv. 486-487), tutto questo si è riversato in una politica sempre più drastica e ottusa, incapace di vedere nel sangue un'eredità sostanziale alla sopravvivenza della stessa polis e nella sfrenata marginalizzazione delle parentele la condanna alla fragilità e al declino per la collettività intera.
E ora, disilluso e annientato, assiste impotente al precipitare di ogni cosa, mentre nel cuore di ciò che più intimamente gli appartiene riesplode con un'identica impetuosità quella violenza che credeva confinata in un tempo ormai lontano, che ha insistentemente ricordato per continuare a scongiurarla, dalla quale si è scrupolosamente astenuto sostituendo la lapidazione di Antigone con la sua incarcerazione a vita per distinguersi dai nemici, per non macchiarsi degli stessi crimini, per evitarne la contaminazione (vv. 773-780, 889-890).
Così, è ancora un gesto "realizzato di persona", che sparge il sangue e lorda "le mani", quello che s'infligge Emone togliendosi la vita (autocheir…cheros…autos pros autou vv. 1175-1177).
È uno di quei gesti che s'impone la sposa Euridice (autocheir v. 1315), quando in apparente osservanza alle restrizioni vigenti si ritira silenziosa e composta nel segreto del palazzo (vv. 1247-1256) e là, sfuggendo ad ogni controllo, si dà la morte, rivendicando col suo atto estremo l'esistenza di un confine oltre il quale l'azione politica si fa ingerenza e la pretesa di dettare regole sopruso; quando colpita nel suo essere madre scompare al mondo anche come regina, a dire come non esista lutto dell'oikos, "della famiglia" (vv. 1187, 1249) che non riguardi necessariamente anche la città della quale la famiglia è nucleo, a contraddire le convinzioni che portano Creonte a sancire la piena sostituibilità di Antigone come sposa per il figlio, ma che non lo trattengono dall'esibire il suo strazio come una donna davanti all'ecatombe dei "suoi" (11).
Quelli, infine, i gesti (cheirosautos vv. 1257-1260; pro cheiron v. 1279; en cheiressin v. 1297; tan cheroin v. 1345) che investono Creonte della responsabilità della morte di figlio e sposa (vv. 1263, 1319, 1340).

Orazione funebre di Pericle,
Philipp von Foltz
Tuttavia, forse, Sofocle sperava non fosse troppo tardi perché la sua città intuisse la profondità dei rischi causati da un agire politico a tal punto sconsiderato. Era all'Atene del 442 a.C. che egli rivolgeva il suo monito, l'Atene del primato di Pericle, del consolidarsi degli istituti democratici e dell'opposizione ad ogni anacronistico tentativo di ripristinare un modello aristocratico storicamente oramai volto al declino; ma era anche l'Atene che impregnava dell'intero retaggio culturale di quel modello persino gli aspetti più strettamente costitutivi dell'ideologia civica, facendo del sangue e della discendenza i fondamenti dei valori che meglio interpretavano la consapevolezza tutta ateniese di appartenere alla polis, quali il diritto di cittadinanza e il mito dell'autoctonia (12).
Non erano ancora gli anni turbolenti che avrebbero accolto la rappresentazione dell'Elettra e Sofocle poteva lanciare il suo appello alla moderazione attraverso il dissenso coperto di Ismene che anticipa e prepara il personaggio di Elettra senza l'urgenza e la drammaticità della più tarda eroina; quasi un'Elettra in fieri questa Ismene che non ha ancora il coraggio (né la necessità) di compiere la violenza definitiva, ma che già ha intuito cosa del passato è necessario dimenticare e ricordare per rifondare un'idea di comunità.


Note:

(1) Per un'esauriente storia dei termini e dei loro utilizzi, cfr. E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, trad. it. Torino, Einaudi, 1976, [ed. or. Le vocabulaire des institutions indo-europeennes, Paris, Le Editions de Minuti, 1969]; J. C. Fraisse, Philia. La notion d'amitié dans la philosophie antique. Essai sur un problème perdu et retrouvé, Paris, Librairie Philosophique J. Vrin, 1974; L. Pizzolato, L'idea di amicizia nel mondo antico classico e cristiano, Torino, Einaudi, 1993.

(2) Tra l'altro, nelle sue parole compare il maggior numero di ricorrenze sia del vocabolario della philia (14 su un totale di 30) sia di quello della syngeneia (35 su 128 complessive).

(3) Contestualizzando il dibattito sulle "leggi non scritte", G. Cerri (Legislazione orale e tragedia greca. Studi sull'Antigone di Sofocle e sulle Supplici di Euripide, Napoli, Liguori Editore, 1979) ravvisa nell'opposizione tra gli agrapta nomima invocati da Antigone e il kerygma proclamato da Creonte la lotta tra due sistemi legislativi realmente in conflitto nell'Atene del tempo: tra un patrimonio di norme orali di pertinenza dell'aristocrazia (talmente in uso ancora nel IV secolo da rendere necessaria l'istituzione di un collegio ufficiale di esegeti preposti alla sua interpretazione) e le disposizioni degli organi costituzionali della città codificate ad opera dello Stato. Cfr. anche G. Glotz, La città greca, trad. it. Milano, Il Saggiatore, 1969, [ed. or. La cité greque, Paris, La Renaissance du Livre, 1928].

(4) Cfr. G. Cerri, Legislazione orale e tragedia greca cit., pp. 17-49.

(5) Cfr. N. Loraux, Mourir devant Troie, tomber pour Athènes, in G. Gnoli, J. P. Vernant (a cura di), La mort, les morts dans les sociétés anciennes, Cambridge, Cambridge University Press, 1982, pp. 27-44.

(6) Cfr. N. Loraux, Oikeios polemos: la guerra nella famiglia, "Studi Storici", I (1987), pp. 5-35; J. Alaux, Fratricide et lien fraternel: quelques repères grecs, "Quaderni di Storia", XLVI (1997), pp. 107-132.

(7) Antigone ricorre sistematicamente a termini (o espressioni) che dicono la "nascita dalla stessa madre", la "discendenza dalle stesse viscere", l'"origine dallo stesso ventre". Dunque, si serve di parole come: adelphos (vv. 46, 81, 517, 912), autadelphos (vv. 1, 503), kasignetos (vv. 21, 870, 899, 915), omosplanchnos (v. 511), o ex emes metros (v. 466).

(8) Nell'annosa questione dell'attribuzione del v. 572, sembra preferibile abbracciare la posizione di quanti ne sostengono l'assegnazione ad Ismene piuttosto che ad Antigone per non spezzare il ritmo dello scambio con Creonte. Tra i primi, cfr.: A. H. Sommerstein, Soph. Ant. 572 ("Dearest Haimon"), "Museum Criticum", XXV-XXVIII (1990-1993), pp. 71-76; M. Davies, Who speaks at Sophocles Antigone 572?, "Prometheus", XII (1986), pp. 19-24; B. M. W. Knox, Sophocles Antigone, "Gnomon", XL (1968), p. 755; Sofocle. Tragedie e frammenti I, G. Paduano (a cura di), Torino, UTET, 1982, pp. 292-293; M. L. West, Further textual problems in Sophocles, "Bulletin of the Institute of Classical Studies of the University of London", XXVI (1979), p. 108. Quanto ai sostenitori dell'attribuzione ad Antigone, cfr.: D. B. Gregor, )=W fi/ltat ), "Classical Review", VII (1957), pp. 14-15; Sophocles. The plays and fragments. Part III. The Antigone, with critical notes, commentary and translation in english prose by sir Richard C. Jebb, Cambridge, Cambridge University Press, 19003 (1888), p. 110; The plays of Sophocles. Commentaries. Part III. The Antigone, by J. C. Kamerbeek, Leiden, E. J. Brill, 1978, p. 115.

(9) Cfr. E. Avezzù, Antropologia e lessico della parentela greca, in E. Avezzù, O. Longo (a cura di), Koinon aima. Antropologia e lessico della parentela greca, Bari, Adriatica Editrice, 1991, pp. 25-40.

(10) Cfr. N. Loraux, La main d'Antigone, "Metis", I (1986), pp. 165-196.

(11) È estremamente interessante che a questo punto della tragedia Sofocle abbia messo in bocca a Creonte l'intercalare tipico del lamento femminile: aiai (vv. 1267, 1288, 1290, 1306, 1310), feu (vv. 1276, 1300), io (vv. 1261, 1266, 1276, 1283-1284, 1319), omoi (vv. 1265, 1271, 1275, 1294, 1317, 1341).

(12) Cfr. J. K. Davies, Athenian citizenship: the descent group and the alternatives, "Classical Journal", LXXIII (1978), pp. 105-121; N. Loraux, Les enfants d'Athéna, Paris, Librairie Francois Maspero, 1981, pp. 1-73; S. Goldhill, Reading greek tragedy, Cambridge, Cambridge University Press, 1986, pp. 57-78.

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